Premessa
QUANDO MI RECAI IN BRASILE NELL’INVERNO DEL ’98 per realizzare un film sul calcio brasiliano con il cineasta Lasse Westman, nacque l’idea di scrivere un libro sulla storia del calcio in Brasile. Sullo sfondo c’erano, naturalmente, “Pelé e Garrincha”, i miei idoli dell’infanzia. Senza avere dei ricordi personali del Mondiale del ’58, quei due giocatori assursero comunque al ruolo di ispiratori quando da bambini si facevano le squadre e si giocava a due porte. Il libro di Imi Markos su Garrincha, uscito nel ’63, mi aiutò a farcire i sogni di quello a cui mirava il “vero” calcio. Lì c’erano fotografie dei Mondiali del ’58 e del ’62, ma anche una foto di Garrincha con la canna da pesca in mano a Pau Grande, un’immagine che creò un’aura di purezza e castità, che mi ricordava molto un altro dei miei libri preferiti, quello di Astrid Bergman Suckdorff su “Chendru”. Un giorno d’estate del ’66 potei avvicinarmi agli “dei”. La nazionale brasiliana era a Malmö per incontrare il Malmö FF in un’amichevole in vista dei mondiali inglesi, e all’Hotel Arkaden riuscii a ottenere l’autografo sia di Pelé che di Garrincha. La felicità era assoluta. Nel libro ho voluto essere fedele alla venerazione che provai allora. La mia speranza è che lo sguardo innocente del bambino interagisca con quello disilluso dell’adulto. Nel mio capitolo sugli albori del calcio in Brasile, mi sono in primo luogo basato sul classico di Mario Filho O Negro no Foot-ball Brasileiro (“I neri nel calcio brasiliano”). Ma anche su A verdadeira história do futeboll brasileiro (“La vera storia del calcio brasiliano”) di Loris Baena Cunha e su Dos pés à cabeça (“Dai piedi alla testa”) dello studioso di calcio Mauricio Murad. Il capitolo su Garrincha non sarebbe stato possibile senza la consultazione dell’illuminante biografia di Ruy Castro Estrela solitária (“Stella solitaria”). Nella prefazione al libro di Mario Filho, il sociologo Gilberto Freyre scrive che nessun altra “istituzione” può misurarsi come importanza col calcio e con la sua capacità di dare ai mulatti e ai neri un posto nella società brasiliana. Dove ha fallito la politica, ha vinto il calcio. È uno dei due grandi aspetti della crescita del calcio brasiliano, l’altro è il modo in cui ciò è accaduto, come i neri hanno trasformato il calcio rigido degli inglesi nel “calcio samba”. Il libro di Mario Filho è unico, e quando uscì venne pubblicato a puntate sul quotidiano O Globo, godendo in tal modo di ampia diffusione.
Il motivo per cui Mario Filho decise di tracciare i primordi della storia del calcio brasiliano fu che, negli anni ’40, s’imbatteva sempre in persone che gli dicevano che il calcio era “meglio prima”. Qualcosa lo fece insospettire, tutti quelli che sostenevano questo erano infatti bianchi e appartenevano alla classe abbiente. Erano queste persone che coltivavano il romanticismo degli albori del calcio, e con questo come punto di partenza, Filho iniziò la sua ricerca, intervistando centinaia di dirigenti e giocatori che ricordavano quei tempi.
Il problema di scrivere la storia in Brasile è che il paese, in larga parte, è un paese “senza memoria”. Esistono, in rapporto all’importanza del calcio, pochi documenti scritti. Nemmeno i grandi club tengono degli annuari attendibili. Quello che normalmente esiste è una quantità enorme di ritagli di giornale. In questo senso il Brasile è un paese tipicamente terzomondista; l’alto tasso di analfabetismo fa sì che non abbia senso pubblicare libri sul calcio, e la situazione svedese, dove anche il club della divisione più bassa che abbia un minimo di dignità ha un proprio giornaletto, è molto distante da quella brasiliana.
Il Brasile è un paese che, nonostante la sua immensità, è finito immeritatamente all’ombra dell’America di lingua spagnola, poiché il portoghese è parlato da meno persone rispetto allo spagnolo. Inoltre la storia e la mentalità brasiliana sono diverse da quella dei paesi ispanofoni, c’è un’indolenza da “bossanova” e una volontà di compromesso che, condita di saudade, rende il paese meno spettacolare dal punto di vista puramente politico: nessuna guerra civile, nessuna grande rivoluzione, sebbene gli ingredienti per averla ci fossero sempre stati e tuttora ci siano, data l’estrema differenza tra le classi. Il Brasile è, contraddittoriamente e per molti versi, un mistero: tremendamente violento e così ricco di pace e amore. Dopo parecchi viaggi in Brasile, mi rendo conto di quanto poco conosca della società brasiliana e quanto sia difficile ingabbiarla in un modello in uso. Oppure, per dirla con Fernando Gabeira, lo scrittore e uomo politico che durante gli anni d’esilio guidava la metropolitana a Stoccolma: “Quello che irrita molto del Brasile è la difficoltà con cui il paese si lascia incasellare in modelli generalizzanti.”
Il libro tratta di ciò che comunque penso di aver capito. Il calcio in questo paese è malato di corruzione, ma il nucleo, il gioco per strada e sulla spiaggia, è più sano e in vita che in ogni altro luogo. In un periodo di crisi del calcio nazionale brasiliano, è nell’amore per quel nucleo in cui si possono riporre le speranze.
Voglio ringraziare le seguenti persone per l’ispirazione e per il gentile supporto nella stesura del libro: Maria José Valinho Alvarez, Reynaldo Velinho Alvarez, Cláudio Aragão, Guilem Rodrigues da Silva e Lasse Westman. Le interviste con Zagallo, Zico, Zizinho, Nilton Santos e Tostão le ho condotte io stesso.
FREDRIK EKELUND
Citazioni
“La conoscenza del Brasile passa attraverso il calcio.”
EDILBERTO COUTINHO, scrittore brasiliano
“Mentre nel nostro vecchio mondo ci si dedica sempre più all’illusione di poter creare uomini di “razza pura”, come fossero cavalli da corsa o cani, la nazione brasiliana si basa da secoli, in tutto e per tutto, sul principio del libero e incontrollato incrocio tra razze, la completa uguaglianza tra neri, bianchi, mulatti e gialli…”
STEFAN ZWEIG da Il Brasile, 1941
“Senza contare che il calcio è un’arte e una professione (il professionismo venne introdotto nel 1933), il calcio è, così come si è trasformato in Brasile, la rappresentazione politica di un legittimo avvicendamento: la conquista della borghesia da parte delle classi inferiori.”
MAURICIO MURAD, sociologo e studioso di calcio in Dos pés à cabeça (“Dai piedi alla testa”), 1996
“Un mondiale di calcio senza Brasile è come un cane senza muso.”
AMANDA EKELUND, 10 anni, Squadra pulcini femminile, Malmö FF
dal capitolo 1. Da svago delle classi alte a fonte di gioia delle masse – lo sviluppo del calcio in Brasile:
Il 15 novembre 1889 l’imperatore Pedro II lasciò il potere ai militari. L’impero era finito e, senza versare una goccia di sangue, il Brasile si trasformò in una repubblica: “Quasi silenziosamente l’impero crolla, e anche questa volta, quando fallisce, lo fa senza macchiarsi di sangue, come quando ebbe il sopravvento. La vera vincitrice morale è di nuovo la pacatezza brasiliana. Senza il minimo astio, il nuovo governo invita l’uomo anziano, che per cinquant’anni ha amministrato con bontà il suo paese, a lasciare il Brasile per finire i suoi giorni in Europa.”* La tardiva soppressione della schiavitù nel 1888, impedì a Pedro II di continuare a governare. Venne proclamata la repubblica e poco dopo Pedro II lasciò il paese per l’Europa. Il Brasile faceva il suo primo passo vacillante nel futuro, le tracce del feudalismo e del colonialismo ora sarebbero state cancellate, i militari che guidavano la transizione abbracciarono tutte le dottrine positiviste; Auguste Comte era oggetto di culto, e il credo di un futuro segnato dalle dottrine razionali della scienza fece grande presa su settori dell’élite brasiliana. La schiavitù era appena stata abolita e nel sud l’industria del caffè subiva una modernizzazione radicale, gli schiavi lasciavano le piantagioni e si spostavano nelle grandi città. Vennero progettate grandi infrastutture, la più importante fu la creazione di una rete ferroviaria. Il paese si aprì ai capitali stranieri e agli immigrati di ogni angolo del mondo. Tedeschi, portoghesi, italiani e inglesi erano i gruppi più cospicui. Furono soprattutto gli inglesi ad avere un ruolo importante dal punto di vista economico. Lo avevano fatto nel corso di tutto il XIX secolo. Furono gli inglesi che, per interesse proprio, aiutarono il Brasile a farsi nazione; i banchieri britannici fecero in modo che i grandi debiti del Portogallo verso l’Inghilterra venissero trasferiti in Brasile, e la nuova nazione, dal punto di vista economico, fu per molto tempo un vero “protettorato inglese”, e così sarebbe stato fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Gli inglesi, a metà ‘800, avevano preso in mano gran parte del commercio, circa il 90%, tra Brasile e Portogallo. Sebbene il potere economico fosse nelle mani dei baroni del caffè, che impugnavano lo stato come un utensile al proprio servizio, gli inglesi, attraverso i propri salari ma anche tramite investimenti diretti, svolsero un ruolo decisivo nei primi passi dell’industrializzazione del paese; e fu tra questi gruppi di inglesi, a San Paolo e a Rio de Janeiro, che per la prima volta si giocò a calcio in Brasile.
I primi club brasiliani ebbero come fondatori degli inglesi. The Bangu Athletic Club, nei sobborghi settentrionali di Rio de Janeiro, era collegato all’industria tessile “A companhia Progreso Industrial do Brasil” e nel consiglio d’amministrazione c’erano sette inglesi, un italiano e un brasiliano bianco. Altri club dei primordi furono il Payssandu Cricket Club e il Rio Cricket and Athletic Association. Gli inglesi investirono in aziende private e, attraverso concessioni, pubbliche, da qui il gran numero di famiglie inglesi presenti in Brasile in quel periodo; esse lavoravano alla costruzione della ferrovie e delle industrie tessili, e nel programma dei club inglesi non c’era solo il cricket, ma anche il canottaggio, il polo – e il calcio. I club funzionavano come in Inghilterra: ci si doveva riposare e rilassare dopo il lavoro, e nei club di cricket la gente si riuniva per sentirsi a casa e per coltivare le tradizioni inglesi. Si coltivava il patriottismo, e se c’era un incontro tra Payssandu e Rio Cricket, a bordo campo sventolava la bandiera inglese. C’erano britannici sparsi lungo tutta la lunga costa Atlantica del Brasile, e il fatto che in vari luoghi si giocasse a calcio, soprattutto tra i marinai inglesi nei porti – e perfino tra i cappuccini! – non sminuisce l’importanza dell’anglo-brasiliano Charles Miller.
Charles Miller nacque nel 1874 da genitori inglesi, il padre era console britannico a San Paolo. Da ragazzo Miller fu mandato a studiare a Southampton. Quando a vent’anni tornò dall’Inghilterra, lo fece con un pallone sotto il braccio e con una profonda conoscenza del nuovo gioco. Aveva giocato negli Hampshires, in Inghilterra, e quando tornò a San Paolo riunì intorno a sé dei giovani inglesi, la maggior parte legati alla compagnia del gas cittadina, alla São Paulo Railway o alle banche inglesi. Il primo allenamento che organizzò ebbe luogo il 14 aprile 1895, e da allora il nuovo sport si diffuse in un lampo nelle scuole inglesi, ma anche nelle imprese dove lavoravano i britannici. La prima partita ufficiale disputata sul suolo brasiliano fu nel 1895, tra São Paulo Railway e Team do Gás, una squadra della compagnia del gas cittadina. Venne fondato il São Paulo Athletic Club, sempre dagli inglesi, che si ritrovavano in un posto di San Paolo denominato Chácara Dulley, nel quartiere di Bom Retiro; ma, siccome fino ad allora c’era solo una vera squadra, si svolsero pochi incontri; si dovette aspettare l’arrivo a San Paolo del tedesco Hans Nobiling, prima che il calcio prendesse piede sul serio. Nobiling apparteneva all’ondata di immigrati tedeschi che si stanziarono nel Brasile meridionale, diventando duri antagonisti degli interessi economici inglesi. Anche Nobiling conosceva il nuovo gioco e viene normalmente considerato, con Charles Miller, il più importante tra i pionieri del calcio brasiliano. Mano a mano vennero fondate altre squadre, e queste solevano affrontarsi alla domenica, ma gli spettatori erano rari e i partecipanti appartenevano all’élite bianca. Pochi erano d’origine brasiliana, la maggior parte erano inglesi, e i brasiliani che andavano a vedere le partite non impararono mai a riconoscere i calciatori. C’erano sempre giocatori nuovi, gente che lavorava in Brasile per un po’ e che tornava in Inghilterra per essere rimpiazzata da altri.
Progressivamente alla diffusione del gioco, sorgeva il bisogno di un più alto numero di giocatori. Come nel Bangu Athletic Club, ad esempio, il club che era strettamente legato a un’industria tessile dei quartieri settentrionali di Rio. Quando giocava il Bangu, sempre più brasiliani si riunivano per vederlo. A loro fu concesso di raccogliere i palloni che finivano fuori dal campo e la curiosità per il gioco inglese aumentò. E all’improvviso ci fu bisogno di persone. Mancava un inglese e il Bangu lo sostituì con un brasiliano bianco, mentre i neri e i mulatti potevano continuare ad accontentarsi del ruolo di raccattapalle.
Nel centro di Rio, i fratelli Edwin ed Oscar Cox, che avevano studiato in Svizzera e là avevano imparato ad apprezzare il nuovo gioco, fondarono un club orientato verso il calcio, il Fluminense, che si dedicava anche agli sport preferiti dai carioca: ginnastica, ciclismo, canottaggio e “boliche” (un gioco coi birilli). I fratelli Cox avevano, come Miller, un background inglese e si sentivano molto affinità con tutto ciò che era britannico. Il Fluminense divenne luogo di ritrovo per la classe alta di Rio, e l’entusiasmo dei fratelli Cox per il nuovo gioco lo spinse all’espansione, che però fu più rapida a San Paolo che a Rio. A San Paolo partì il primo campionato di calcio brasiliano nel 1902, LPF (Liga Paulista de Futebol). Cinque squadre parteciparono allo storico torneo: São Paolo Athletic, Germânia, Paulistano, Mackenzie e Internacional. Il São Paulo di Charles Miller vinse il primo campionato, e lui stesso divenne capocannoniere del torneo con 10 reti. I brasiliani erano però in ritardo nella crescita rispetto ad altri paesi sudamericani; in Argentina il primo campionato nazionale era iniziato già nel 1891, in Cile nel 1894 e in Uruguay nel 1899.
Il primo incontro tra Rio e San Paolo ebbe luogo l’1 agosto 1901 e finì in parità 1-1. La partita si concluse nello stile dell’epoca, con un banchetto; la classe superiore governò il calcio anche quando questo diventò sempre più brasiliano: partito il campionato a Rio, quando il Fluminense andava in trasferta, viaggiava in limousine e con tanto di smoking. A neri e mulatti era espressamente vietato partecipare al gioco. Lo stile britannico dominava, gli inviti a nome delle squadre erano scritti in inglese e, nei discorsi successivi alle partite, la colonia brasiliana era osannata come la regina inglese.
Lentamente ma a passo spedito, il calcio scivolò però tra piedi brasiliani e nel 1905 il campionato di San Paolo fu vinto dal Paulistano, una squadra di soli brasiliani. Nello stesso anno venne fondato il primo campionato carioca, LMF (Liga Metropolitana de Futebol), che partì l’anno successivo. Le sei squadre che parteciparono furono Fluminense, Botafogo, Payssandu, Rio Cricket, Bangu e Foot-Ball Athletic. Il Fluminense lo conquistò dopo aver perso un solo incontro. Le partite attiravano sempre più spettatori, soprattutto donne. Il calcio era chic, era di moda, e ragazze e signore della buona società di Rio si ritrovavano alle partite. La concorrenza tra canottaggio e calcio era serrata. I canottieri disprezzavano i calciatori, ritenendosi più virili di uomini e ragazzi che “correvano dietro a una palla”. Inoltre esisteva una minaccia sociale nel fatto che chiunque poteva giocare a calcio. Nei sobborghi di Rio si vedevano sempre più bambini giocare con palloni fatti di calze arrotolate. Il calcio attirava la gente, nacquero sempre più squadre, a differenza del canottaggio che, come il cricket, fondava il proprio mondo sulla chiusura; il ruolo sociale del canottaggio era di isolare gli uomini, il calcio divenne l’esatto contrario: raggruppare uomini al di là delle differenze di classe e di razza. E tra i portavoce del canottaggio, logicamente, il calcio era visto come “volgare contagio”.
Nel complesso, per poter partecipare era necessario appartenere ai ricchi. Banchetti e viaggi erano pagati dagli stessi giocatori, e potevano essere parecchi e lunghi. Ai banchetti si cantava e beveva fino a notte fonda: “For he is a jolly good fellow…”, ad esempio. Ciò era impensabile per un operaio tessile di Bangu. Una serie di barriere teneva lontana la gente dal calcio, e un operaio, per avere la possibilità di giocare, era prima costretto ad avanzare nella scala sociale all’interno della fabbrica, fino a capofficina, poi la cosa si poteva prendere in considerazione. Il Brasile era – e lo è tuttora – un paese con una forte e radicata distinzione tra classi. La schiavitù venne abolita nel 1888, solo pochi anni prima che il calcio prendesse piede, e che un ex schiavo potesse giocare a calcio alle stesse condizioni dei bianchi, era impensabile.
Ci vollero solo alcuni anni prima che il canottaggio perdesse la sua posizione di sport più popolare. Già nel 1912 le partite di calcio erano uno svago più diffuso – e un grandioso spettacolo di cappelli! – rispetto alle regatas. I giornali seguirono il trend e scrissero sempre meno sul canottaggio e sempre più sul calcio, os meetings, come venivano chiamate le partite. Fu sempre in questo periodo, con tutte le donne a fare da spettatrici, che nacque il concetto brasiliano torcer (tifare). Gli incontri iniziavano con tutti i giocatori che si piazzavano in fila davanti alle tribune e gridavano un ritmato “Hip, hip, hurra!” verso i vivaci colori delle donne sugli spalti. Le donne sulle tribune, agghindate con abiti vistosi, ventagli, cappelli di paglia e grandi cestini di frutta, torcevano (torcer) i loro fazzoletti alla vista dei mariti e fidanzati sul campo. Questo torcere nervoso dei fazzoletti diede il nome al modo di tifare e anche oggi si è “um torceador” se si tifa per una squadra, e se si tifa in modo organizzato si appartiene a una torcida.
*in: Stefan Zweig, Brasile, paese del futuro
Il 1922 è un anno importante nella storia contemporanea brasiliana. In quell’anno si tenne la manifestazione “A Semana de Arte Moderna” a San Paolo. Un centinaio di artisti, scrittori e compositori si riunirono a San Paolo intorno a un manifesto dell’arte moderna che rimarcava la specificità brasiliana. L’avanguardia era guidata, tra gli altri, dallo scrittore Mario de Andrade e dal compositore Heito Villa-Lobos. Si riteneva importante osare intraprendere un percorso artistica proprio, che affondasse le radici nel carattere e nella cultura brasiliana, e il manifesto incoraggiava gli artisti di tutti i campi a liberarsi dei modelli europei, il giogo delle forme che cercava di rinchiudere la musica, la letteratura e l’arte brasiliana in schemi europei. “A Semana de Arte Moderna” ebbe profonde conseguenze sulla vita sociale brasiliana, a tutti i livelli. Per la prima volta il brasiliano si vedeva rispecchiato per quello che era, il mulatto e il meticcio avevano ottenuto la loro legittimazione artistica e politica, fatto che ebbe ripercussioni anche nel mondo del calcio.
Un altro avvenimento dell’epoca che influenzerà lo sviluppo del calcio, fu il viaggio della nazionale brasiliana a Buenos Aires per dispuatre un’amichevole contro l’Argentina. La stampa presentò i giocatori brasiliani come “scimmie” poiché nella squadra c’erano giocatori di colore. Molti dei calciatori si rifiutarono quindi di scendere in campo, e il match iniziò in otto contro otto. Un altro fatto che accelerò lo sviluppo del calcio fu l’arrivo dell’Uruguay a Rio per un’amichevole. La squadra brasiliana constava di dieci giocatori bianchi e uno di colore, Gradim. Inaspettatamente, Gradim realizzò due reti e il pubblico s’infuriò. I giocatori brasiliani non riuscirono a controllare la propria rabbia, e ogni volta che Gradim toccava palla veniva falciato senza che l’arbitro osasse intervenire. Gradim era nero e il Brasile giocava in casa. Alla fine Gradim non osava più toccar palla, ma l’Uruguay vinse 2-0, e in Brasile furono in molti a vedere in questo un segno. Una squadra che trasse le proprie conclusioni dall’accaduto fu il Vasco da Gama di Rio. Nel 1922 il club venne promosso nella massima divisione carioca. Il Vasco da Gama era – ed è – l’orgoglio della colonia portoghese e, nella migliore tradizione portoghese, aveva riunito un mix di giocatori. Nella squadra qualificatasi per la massima divisione c’erano mulatti e bianchi, portuali e taxisti. La squadra, con la sua composizione, costituiva una rivoluzione sociale, ma i grossi club di Rio inizialmente se ne disinteressarono. Nessuno prese il Vasco sul serio. “Possono inserire quanti negri e mulatti vogliono, non servirà a niente!”, si diceva del Vasco da Gama, che nemmeno aveva un proprio stadio dove giocare.
Ma le cose sarebbero cambiate in fretta. Con le prime vittorie del Vasco, gli stadi si riempirono. E adesso di gente che mai era andata a vedere le partite di calcio. Chiunque a Rio avesse origini portoghesi si sentì in dovere di andare a tifare per la squadra-sorpresa; e i successi del Vasco crearono una situazione nella quale tutti gli altri grandi club, “in nome del Brasile”, come si diceva, si ripromisero di demolire la matricola. Non si trattava solo dei neri, ma anche di Brasile contro Portogallo, un fatto di grande prestigio. I calciatori del Vasco si allenarono duramente, nonostante fossero impegnati nei loro normali lavori. Si allenarono perfino di notte, alla luce della luna. Per la partita contro il Flamengo dell’8 luglio 1923, i grandi club di Rio s’erano mobilizzati. Il Vasco giocava in casa ma dovette usare lo stadio del Fluminense, dove i tifosi del Flamengo si unirono a quelli del Botafogo e del Fluminense. Armati di remi – le squadre erano anche club di canottieri! – i tifosi delle tre squadre presero posto sugli spalti, e di fronte a questi supporter equippaggiati così minacciosamente, quelli del Vasco non osaro tifare per la propria squadra. Per una volta, in quel campionato, il Vasco da Gama perse. Per 3-2. E i tifosi del Flamengo, con quelli degli altri grandi club, coltivarono la breve illusione che tutto fosse come doveva essere, che si viveva ancora “nel migliore dei mondi”, dove i neri stavano al loro posto, nella società come sul campo da calcio.
Niente di più sbagliato. La sconfitta col Flamengo fu soltanto l’eccezione che confermava la regola. Il Vasco da Gama vinse il Campionato di Rio del 1923. La “rivoluzione” aveva trionfato. Dei normali operai brasiliani, neri e bianchi, avevano umiliato l’élite bianca, ma erano molto in anticipo sui tempi e vinsero con il tipo di schieramento che più avanti avrebbe fatto del Brasile una superpotenza del calcio.
dal capitolo 8. Passaggi corti e cross – pensieri sul Brasile, i brasiliani e la loro più grande passione: il calcio:
“Uno sguardo d’insieme è impossibile in un paese che ancora non riesce a guardare del tutto se stesso, un paese che, per di più, si trova in un processo di sviluppo così eccezionalmente rapido, che relazioni o statistiche sono già invecchiate prima che si riesca a rielaborarle e a pubblicarle. Tra la moltitudine di domande, bisogna quindi interrogarsi soprattutto sul punto centrale, che a mio modo di vedere è il più attuale e che, sia spiritualmente che moralmente, regala al Brasile di oggi una posizione di rilievo tra tutte le nazioni della terra. Questo problema nodale, che si presenta ad ogni generazione e quindi anche alla nostra, è la risposta alla più semplice eppure più necessaria di tutte le domande: come si farà a raggiungere sulla nostra terra una convivenza pacifica tra uomini di diverse razze, classi, colori, religioni e idee? È il problema che inconfutabilmente si ripresenta in continuazione in ogni società, in ogni stato. Per nessun paese questo problema, in conseguenza di un particolare complesso di fattori, si pone in modo più pericoloso che in Brasile, e nessun paese ha – e, con gratitudine, per attestare ciò scrivo questo libro – risolto il problema in modo così felice ed esemplare come il Brasile, un modo che a mio giudizio può esigere non solo l’attenzione del mondo, ma anche la sua ammirazione.”
Stefan Zweig nel libro Il Brasile – paese del futuro, edito in Svezia nel 1941, un libro scritto all’ombra dell’Europa di Hitler e Mussolini. Il Brasile era diventato agli occhi di Zweig un SÌ alla mescolanza di razze, che fascismo e nazismo tanto disprezzavano.
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Il Brasile è un paese giovane, in tutti i sensi. Anche dal punto di vista letterario. Le prime grandi opere nacquero alla fine del XIX secolo. Os sertões, del giornalista Euclides da Cuhna, viene visto da molti come il primo grande racconto realista brasiliano. È su quella narrazione che Vargas Llosa costruisce il suo romanzo La guerra della fine del mondo. Il libro di da Cunha descrive uno degli avvenimenti più rilevanti della moderna storia sociale brasiliana, la rivolta di Canudos. Un predicatore “folle”, Antonio Conselheiro, per parecchi anni aveva girato il Brasile nordorientale predicando ai poveri nelle strade e nelle piazze; essi avrebbero dovuto costruire una propria comunità, libera dalle ingiustizie, e a tutt’oggi le opinioni sul suo conto sono contraddittorie: alcuni lo vedono come un santone pazzo, altri, specialmente a sinistra, lo considerano un utopista, un gesuita e progressista che cercava di costruire una società socialista nella cornice del moderno “progetto” brasiliano. Antonio Conselheiro ebbe molte migliaia di seguaci, una strana amalgama di emarginati, straccioni, mendicanti, vecchi, bambini, infermi e ciechi. Questi gruppi lo seguirono in un faticoso pellegrinaggio nell’inospitale caatinga, nel nordest del paese, un’area torrida, costituita da zone desertiche e sterpaglie, dove al massimo piove alcuni giorni all’anno. Giunti in un piccolo villaggio chiamato Canudos, si accamparono ed edificarono una comunità efficiente, basata sui principi del leader, una miscela di cristianesimo e socialismo. La voce di una società alternativa si diffuse rapidamente in tutto il Brasile e i simpatizzanti, persone povere, affluivano per partecipare all’esperimento. A Rio, all’epoca capitale, la gente, sorridendo, scuoteva il capo pensando ai “pazzi di Canudos”; tuttavia si decise di inviare un piccolo contingente militare per vanificare l’esperimento. Dei cinquecento soldati inviati nella caatinga solo pochi fecero ritorno. Quelli che non morirono di sete e di fatica erano conciati così male, quando giunsero a Canudos, che gli uomini di Conseilheiro li sconfissero con facilità irrisoria. Nella capitale la preoccupazione montava. Chi erano quei “selvaggi” laggiù, nelle lande più inospitali del paese, quegli uomini ingrati che non si riconoscevano nel “nuovo Brasile” che ora, dopo l’abolizione della schiavitù, avrebbe preso forma? Quel Brasile con la sua enorme fiducia nel futuro e l’estrema fede nella scienza, dove Auguste Comte, il padre del positivismo, era più in voga di quanto lo fosse mai stato in Europa! Nessuno sapeva esattamente chi erano, e il governo decise di distruggere Canudos inviando un battaglione di 1300 soldati armati di tutto punto con tanto di artiglieria. È questa guerra che Euclides da Cunha descrive con tanta sensibilità e partecipazione. Anche questa seconda schiera di soldati venne respinta dagli uomini mal armati di Canudos, che avevano tutto da guadagnare e nulla da perdere. Dei 1300 soldati ne sopravvissero solo alcune centinaia. Terrorizzati, traumatizzati e umiliati, tornarono nella capitale, dove cominciava a diffondersi il panico. Cosa stava succedendo realmente laggiù “nel cuore delle tenebre”? La terza ondata, a metà giugno 1897, fu di 2350 uomini e, dopo oltre due mesi di assedio e combattimenti, il 5 ottobre Canudos capitolò. Tra gli ultimi quattro difensori di Canudos c’erano un bambino di sette anni e un vecchio di settanta. Morirono in battaglia e Canudos tornò in mano al governo.
Ma cosa accadde “veramente”? Se ne dubita ancor oggi. In una società con differenze di classe così estreme come quella brasiliana, Canudo vive ancora come un ricordo di quanto tempi diversi e differenti epoche sociali vivano fianco a fianco. Ed è così ancor oggi, la Gávea delle classi abbienti si trova accanto alla più grande favela latinoamericana, Rocinha, che ha lo stesso numero di abitanti di Malmö. Il simbolo vive, anche nel mondo del calcio, e quando il Brasile, con grande sorpresa, perse la finale mondiale del 1950 in casa contro l’Uruguay, alcuni dei protagonisti in campo parlarono di “nostra Canudos”.
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Paulo Lins è il nome di uno scrittore proveniente da uno dei peggiori quartieri di Rio de Janeiro, Cidade de Deus (“Città di Dio”). Lins sfondò nel 1998 con il romanzo intitolato proprio Cidade de Deus, una spietata descrizione realista di una guerra tra gang che, negli anni ’80, fece più di cinquecento morti tra i giovani del quartiere. Il libro, da cui è anche stato tratto un film, mostra una crudeltà inconcepibile, che colpisce così a fondo da lasciare senza respiro: bambini di otto anni assassini su commissione, ad esempio.
Quando intervisto Lins su un terrazzo di Cidade de Deus, rimango colpito dalla profonda tristezza dei suoi occhi – lui è più giovane di me, ma ha già “visto e sentito tutto” – ma anche dall’indomita voglia di vivere e dello spirito da cui è pervaso; la fede nella poesia, nella letteratura e nelle forze positive che comunque esistono in mezzo a un mondo così pieno di povertà, violenza e ingiustizia. Egli spazza via diversi miti, tra gli altri quello che noi europei volentieri associamo al Brasile, che il paese non conoscerebbe razzismo.
– Si dice che la droga sia il grosso problema, ma non è così. Il problema del Brasile è il razzismo. Il Brasile è un paese pieno di corruzione. La maggior parte della gente è analfabeta o semianalfabeta. Poche persone leggono. Pochi hanno accesso alla cultura, all’informazione. Dicono che la violenza a Rio dipenda dalla droga. Ma non è vero. La violenza dipende dalla nostra storia, dal tipo di sviluppo che abbiamo avuto, inoltre la povertà è aumentata in modo inaudito durante la dittatura. Il Brasile è una tragedia!
– Nel calcio questa violenza non la si nota molto. Ma fuori dal calcio è molto presente. Come mai?
– Credo che dipenda dal fatto che il calcio e la musica sono le nostre risorse. Le uniche cose che la gente capisce davvero sono il calcio e la musica. Il calcio è la nostra passione più grande. Tutti amano il calcio, il calcio è diventato come un dio. È l’unica cosa bella che abbiamo, quella che portiamo con noi nei nostri cuori…
D’un tratto si sente una raffica di mitragliatrice. Io sobbalzo.
– Cocaina in arrivo, sorride rassegnato.
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Ci sono parecchie grandi personalità nella storia del calcio brasiliano. Una delle più grandi fu Heleno de Freitas, elegante e goleador, che ebbe molto successo nel Botafogo negli anni ’40. Un uomo avvenente, dal carattere irascibile, era il grande idolo non solo degli uomini ma anche delle donne di Copacabana. Ma pare che il suo unico vero amico fosse il pallone. Per il resto era in lotta con tutto il mondo del calcio. L’anno migliore di Heleno de Freitas fu il 1945, quando tornò dalla Coppa America giocata in Cile con il titolo di miglior centravanti dell’America Latina. De Freitas racchiudeva le migliori qualità del calciatore, sia tecnicamente che fisicamente. Il problema era il suo temperamento. Era nemico di tutti, sputava addosso agli avversari, all’arbitro, s’era perfino inimicato i compagni di squadra. Col tempo, quando gli spettatori scoprirono quant’era semplice fargli perdere la testa, sfruttarono questo fatto, gridandogli tra le altre cose “Gilda! Gilda!”. Nel celebre film interpretato da Rita Hayworth, Gilda tiene i capelli in un modo che ricorda quelli di de Freitas; e quando lui sentiva quel grido, usciva di sé e spesso venne espulso per qualche brutto tackle oppure per aggressioni verbali contro gli avversari o i compagni di squadra; il tutto come risposta alle provocazioni del pubblico. Un altro modo di replicare alle provocazioni degli spettatori era quello di imbufalirsi e segnare, e questi “gols de raiva”, gol di rabbia, contribuivano alla sua fama. La sua carrera fu costellata di scandali ed espulsioni. Lasciò il Botafogo per il Boca Juniors, in Argentina, dove in breve tempo riuscì a inimicarsi sia i compagni di squadra che lo staff tecnico. La tappa successiva della sua carriera fu la Colombia e il club Millionàrios. Là diventò un idolo come in patria e venne perfino eretta una statua in suo onore. Ma un giorno, all’improvviso, lasciò i Millionàrios e tornò a Rio in aereo. Una volta a Rio si diresse subito al suo vecchio club, il Botafogo, e si sedette a guardare l’allenamento. Qualcosa in lui si era spezzato per sempre, e non ci fu nessun nuovo contratto col Botafogo. Invece lo si vedeva spesso in motocicletta, andare avanti e indietro lungo quella Copacabana dove una volta era stato scoperto, e sempre più spesso lo si notava seduto da solo in tribuna durante l’allenamento del Botafogo, piangente, con un asciugamano legato intorno alla testa. I disturbi mentali, causati dalla sifilide, indussero la sua famiglia ad internarlo in manicomio. Lì organizzava partite di calcio tra i pazienti. Si occupava di tutto e nella sua camera aveva il tempo di sfogliare gli album con le figure: “Heleno de Freitas, il miglior centravanti dell’America Latina.”
Quando si addormentava, si narra, lo faceva sempre con un pallone in grembo. Fu lì che morì, per un ictus, all’età di 39 anni, nel novembre del 1959.
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Il concetto di “realismo magico” venne coniato da Carmen Barcells, direttrice editoriale della Seix Barrals, la casa editrice spagnola che negli anni ’60 e ’70 lanciò sul mercato parecchi dei grandi scrittori latinoamericani. Si trattava di uno slogan pubblicitario che venne adottato dai critici e dagli studiosi di letteratura, nonostante molti degli autori inclusi nella corrente avessero più cose in comune con i realisti della hardboiled school come Hemingway, ad esempio Vargas Llosa. Il concetto voleva porre l’attenzione sul fantastico, su come verità e menzogna si intrecciassero in storie meravigliose, e Cent’anni di solitudine di Garcìa Màrquez fu il prototipo del “realismo magico”. Un fatto nella storia del calcio brasiliano che si potrebbe facilmente collocare in un romanzo di Garcìa Màrquez accadde nel campionato di San Paolo nel 1949, in una partita tra il Santos e una squadra poco conosciuta della zona, il XV de Piracicaba. Il Santos, che al tempo era un’ottima squadra nonostante Pelé non fosse ancora comparso, conduceva 2-1 a cinque minuti alla fine. Pioveva e tirava un forte vento quando l’ala destra del Piracicaba, José Cervi Junior, detto “O Russo” (Il Rosso), andò verso la bandierina per tirare un calcio d’angolo. Egli aveva deciso che il corner, in un modo o nell’altro, avrebbe portato al pareggio e, quando calciò, tutta la squadra del Piracicaba si trovava nell’area di rigore del Santos. Lui stesso, dopo aver calciato l’angolo, si mise a correre a tutta birra verso l’area. La palla intanto era stata preda del vento e si era fermata, per poi scendere, tornando verso José Cervi che arrivava di gran carriera. Con un perfetto colpo di testa egli pareggiò sul suo stesso corner! E l’arbitro, l’inglese Percy Snape, non vide nessun motivo per non convalidare il gol; quindi la partita, per la gioia sfrenata dei giocatori del Piracicaba, terminò 2-2.
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Nelson Rodrigues, il più importante drammaturgo brasiliano e pungente critico della borghesia brasiliana, nacque a Recife nel 1912 e morì a Rio nel 1980. Rodrigues era un appassionato di calcio e le sue cronache calcistiche appartengono alle migliori che si possano leggere. Con la sua profonda conoscenza del gioco e il suo intuito, era come se vedesse più a fondo nel gioco di chi lo circondava – nonostante fosse quasi cieco! E se qualcuno osava osservare che forse aveva visto male in qualcuna delle sue analisi – dopotutto era quasi cieco – lui cominciava a parlare di “idioti dell’obiettività”. Alla sua fantasia non si potevano opporre nemmeno le riprese filmate, “il filmato è stupido”, asseriva ogni volta che la realtà della pellicola contraddiceva la sua. Il suo stile era alto e popolare allo stesso tempo. Riferimenti a Omero e Shakespeare si mischiavano con naturalezza alla grandezza di Didi, Garrincha o Pelé, ed egli non cercò mai di nascondere il suo grande amore per il Fluminense. I suoi scritti calcistici sono stati raccolti da Rui Castro in due volumi, À sombra das chuteiras imortais e A Pátria em chuteiras. Stilisticamente rimase famoso, oltre per il suo rivolgersi intimamente al lettore, per l’iperbole. Nessuno riusciva a esagerare come lui, spesso le metafore erano pesanti tiri al volo, e a volte – come quando definì la sconfitta del Brasile in finale ai mondiali del ’50 come “la nostra Hiroshima”, oppure come una partita in cui i brasiliani avrebbero pagato per i propri peccati non solo in questa vita ma anche “nelle prossime quarantacinque incarnazioni” – i tiri finivano alti, però spesso centravano il bersaglio. Prova ne è che parecchi dei nomignoli che diede a molti grandi calciatori brasiliani resistono ancora: ad esempio “Il principe etiope” (Didi) e “L’Angelo con le gambe storte” (Garrincha). Uno dei più bei pezzi su Leônidas, “Il Diamante Nero”, è stato scritto da Nelson Rodrigues. Fu pubblicato sulla rivista “Realidade” nel giugno 1966: “Un altro grande giocatore era Leônidas, “Il Diamante Nero”. Un calciatore del tutto brasiliano, dalla testa ai piedi. Aveva fantasia, sapeva improvvisare, era audace e aveva tutta la sensualità che caratterizza i nostri più grandi giocatori. Ricordo come fosse ieri quando Leônidas, primo al mondo, realizzò un gol con una bicicleta. Il Brasile incontrava l’Argentina nello stadio San Januário di Rio. I brasiliani contrastarono e attaccarono. Così arrivò un pallone lungo verso la porta, da molto lontano. Leônidas era spalle alla porta. Senza voltarsi si issò in aria in modo così elegante che mai si era visto prima. Con movimenti morbidi e semplici, il suo corpo si librò in cielo, come dotato di ali. In aria si allungò e fece un movimento fantastico con le gambe. Il tiro era, in sé, assolutamente abbagliante nella sua bellezza. Ma a parte la bellezza del tiro e la sua meravigliosa foggia, esso portò anche a un risultato concreto: il gol.
Il portiere argentino non fece in tempo a muoversi e rimase lì, assolutamente sorpreso. Quello che accadde dopo fu puramente omerico. Sappiamo bene che i giocatori argentini, vanesi come Sarah Bernhardt, mai fanno i complimenti a qualcuno per qualcosa. Be’, stavolta gli argentini si lanciarono su Leônidas e, come un maialino con la mela tra i denti pronto per essere arrostito, fu sollevato in aria. Sì, Leônidas venne abbracciato e osannato non solo dai propri compagni, ma anche dagli avversari, nello stesso momento in cui la gente sulle tribune intonava l’inno brasiliano.”
dalla Parte terza, I dieci migliori giocatori brasiliani di tutti i tempi e altri ancora:
Per descrivere la vita di Garrincha è necessario soffermarsi un po’ sulla storia brasiliana. I suoi progenitori discendevano dagli indios Fulniô della regione di Alagoas, nel Brasile nordorientale, cacciatori che presto avevano imparato a sfuggire “a suon di finte” all’uomo bianco. I portoghesi fallirono nel tentativo di trasformarli in coltivatori, gli indios vivevano di caccia e pesca, e in questo eccellevano. Possedevano una cultura propria, non ultima quella sessuale, nella quale veniva praticato di tutto: poligamia, incesto, sodomia, omosessualità, tra le altre cose. I portoghesi rimasero di primo acchito scioccati al confrontarsi con l’apertura degli indios. Poi la fecero propria praticandola loro stessi. Fu così che iniziò il miscuglio tra razze brasiliano. Nell’America del Nord gli inglesi sterminavano gli indiani, in Brasile i portoghesi violentavano oppure amavano le donne indie. I portoghesi scacciarono gli indios bruciando i boschi, e i Fulniô si dispersero nel Brasile nordorientale. Gli antenati di Garrincha finirono in una fazenda a un centinaio di chilometri dal villaggio distrutto. Il nonno paterno José, in realtà Xisé, si sposò con Antônia, la figlia di uno schiavo nero e di un’india. Erano tempi duri nel Brasile nordorientale a fine ‘800. Gli zuccherifici chiudevano i battenti e la gente si spostava a sud. La coppia ebbe sei figli, tutti cafuzos, meticci tra gli indios e i neri, e il secondo figlio, Amaro Francisco dos Santos, diventerà il padre di Garrincha. Ma fu il fratello maggiore di Amaro, Manuel, che per primo se ne andò dalla fazenda. Era un ragazzo precoce e aveva sentito parlare delle industrie tessili nei dintorni di Rio de Janeiro. In una di esse, a Pau Grande, a cento chilometri da Rio, si fermò e aprì una mattonaia che consegnava laterizi alla fabbrica “América Fabril”, e quando i suoi genitori morirono, incoraggiò i suoi fratelli a trasferirsi a Pau Grande per lavorare con lui. Lo fecero tutti, eccetto Amaro. Egli non era precoce quanto il fratello maggiore e ci volle un pezzo prima che giungesse a Pau Grande. Si era appena sposato con la mulatta Maria Carolina, a Olinda, ma quando raggiunse la schiera di fratelli, il più grande gli trovò lavoro come calzolaio, e fu a Pau Grande che Manuel dos Santos, da bambino chiamato Garrincha, nacque nell’ottobre 1933.
A Pau Grande la fabbrica tessile era tutto. Era di proprietà inglese e l’“América Fabril” costruiva case e strade, faceva sì che l’elettricità, le fognature e l’acqua venissero allacciate e che sorgessero scuole e farmacie. La fabbrica tessile costituiva la vita della gente, nel bene e nel male. Dava sicurezza e lavoro, i bambini andavano a scuola dai sette ai quattordici anni, quando iniziavano nella fabbrica, dove restavano fino ai quarantaquattro anni. Raggiunta quell’età si aveva il diritto alla pensione. Nel tempo libero, la natura – di proprietà della fabbrica – offriva la possibilità di pesca, caccia e bagni. Nulla era proibito, tutti avevano diritto di spostarsi ovunque, e la natura, nella regione amena, era generosa. Pau Grande era, e per certi versi è ancora, un paradiso poco distante dalla grande, violenta Rio de Janeiro. Il calcio fu introdotto da un inglese che arrivò coi primi palloni nel 1908. Per giocare nello Sport Club Pau Grande era necessario lavorare nella fabbrica. I parenti di Garrincha si ambientarono nel villaggio e, a parte lo zio Manuel, gli altri vivevano la vita che avevano vissuto i nonni e i bisnonni, con la superstizione india, la sessualità (molti figli fuori dal matrimonio) e la tradizione di bere cachimbo, una specie di acquavite zuccherata mischiata a miele, usata in molte situazioni. Le donne lo bevevano durante la gravidanza, i bambini contro il raffreddore, l’asma e il mal di denti, e ai neonati lo si siìomministrava come calmante. I genitori di Garrincha erano cresciuti col cachimbo, e il figlio fu presto partecipe della stessa tradizione. Amaro, il padre di Garrincha, non sapeva né leggere né scrivere, ma era conosciuto come un bravo repentista, una sorta di “duellante a parole” che, in versi, sfidava pubblicamente un avversario. Era anche un noto donnaiolo e, oltre agli otto figli ufficiali, si conta che ne abbia avuti altri venticinque nella zona; nonostante molti uomini di Pau Grande sospettassero di ciò che accadeva, nessuno arrivò alle mani con lui, cosa che più tardi divenne ancora più difficile quando il padre di Garrincha divenne guardiano, assunto dalla fabbrica, con poteri quasi militari. Al suo libertinaggio sessuale faceva da contraltare il bere, aveva bevuto cachimbo fin da piccolo e finì la propria vita come alcolizzato cronico. In entrambi i campi, quello sessuale e quello alcolico, sarebbe poi stato superato dal figlio.
La prima cosa che la gente notava del piccolo Garrincha erano le strane gambe. Erano piegate nella stessa direzione, come forgiate in parallelo, una gamba aveva il ginocchio valgo, l’altra era arcuata; con un semplice intervento ortopedico la gamba sarebbe stata sistemata facilmente, ma ciò era impensabile nella Pau Grande del 1933. Le gambe le aveva ereditate da sua madre, Maria Carolina. Da bambino visse liberamente, correndo sempre a piedi nudi, cacciava uccellini e giocava nel bosco, come un bambino indio. Imparò a cavalcare all’età di quattro anni ed era noto per la sua gentilezza – e l’impossibilità a ubbidire. Era di bassa statura, cosa che diede luogo a nomignoli. Rosa, la sorella più grande, lo battezzò Garrincha (o Garricha), da un piccolo e curioso uccello dal piumaggio castano con strisce nere sulla schiena, che si nutre di ragni e piccoli insetti, che canta bene ma è impossibile da tenere in gabbia. Il nomignolo prese piede e, dall’età di quattro anni, per tutti quelli che lo conoscevano fu Garrincha. All’inizio giocò a calcio con delle calze arrotolate insieme, poi con la vescica di una capra, che aveva gonfiato e annodato. I palloni di cuoio se li potevano permettere solo i bambini dei ricchi.
Garrincha visse precocemente una vita propria, al fiume e con gli amici. La scuola arrivò dopo. Frequentò la scuola della fabbrica, dove gli insegnanti per tradizione non bocciavano, ma con Garrincha la situazione era insostenibile. Trascorreva più tempo nel bosco che in classe e dopo due anni di scuola si ritirò. I genitori cercarono disperatamente di far mettere la testa a posto al figlio “selvaggio”, e il padre riuscì a procurargli un lavoro come venditore di caramelle all’ingresso della fabbrica. Andò a finire che il figlio si mangiò tutte le caramelle.
Nel novembre 1982 la rivista calcistica “Placar” fece riunire Pelé e Garrincha. Ne uscì un incontro cordiale, i due suonarono la chitarra, cantarono e discussero di calcio e non si avvertì nessuna nota d’amarezza da parte di Garrincha. Erano sempre stati diversi e mai grandi amici fuori dal campo, e quando Garrincha per scherzo chiese a Pelé di prestargli qualche soldo, tutti i presenti compresero che era una battuta. Ma una battuta che illustrava in modo brutale l’abisso che la vita aveva scavato tra loro dalla prima partita giocata insieme nel 1957. Due mesi più tardi, il 20 gennaio 1983, Garrincha morì. L’autopsia evidenziò che gran parte dei suoi organi interni era compromessa: cervello, cuore, polmoni, fegato, pancreas e reni. L’uomo che aveva regalato più gioie al popolo brasiliano era morto. In riferimento alla morte di Garrincha, Nilton Santos, suo migliore amico, scrive nella propria autobiografia: “Uno dei giorni più tristi della mia vita fu il 20 gennaio 1983, il giorno in cui Mané lasciò questo mondo. Io abitavo a Ilha do Governador e la sera innanzi ero andato a vedere una scuola di samba nelle vicinanze di casa. Rincasai alle cinque del mattino e venni svegliato alle nove dalle telefonate di amici e giornali, che mi ragguagliarono sull’accaduto. Mi volevano in diretta radiofonica dall’ospedale dove si trovava il corpo. Agnaldo Timóteo, un cantante tifoso del Botafogo, pretese disperatamente che mi recassi all’ospedale. La famiglia di Garrincha, fratelli e sorelle, voleva che egli venisse seppellito a Pau Grande, ma tutti ritennero che prima dovesse tenersi una veglia funebre. A Rio. E Timóteo reputò che io fossi l’unico in grado di organizzarla. Ero ancora a casa e non facevo altro che piangere. Non avevo la forza di rispondere al telefono e non volevo andare all’ospedale, anche se sapevo che dovevo farlo. Così ci andai…
Non sapevo a che piano fosse, corsi su, rampa dopo rampa, ma alla fine aprii una porta e lui era là, disteso su un tavolo. Persi completamente il controllo, qualcuno dell’ospedale mi condusse nell’ufficio del direttore. Là c’erano tutti gli altri. Una miriade di microfoni, domande, trambusto, e tutti che aspettavano di sentirmi parlare. Tutti parlavano contemporaneamente. Nemmeno durante i Mondiali mi erano state poste tante domande…
Un assessore comunale di nome Dayse Lúcidi mi disse che il comune aveva predisposto il salone d’onore per la veglia. Sapevo che la decisione spettava a me e dissi: – Grazie, ma non è il posto per lui. Il Maracanã dev’essere aperto per accoglierlo. Là, tutti, lui e noi, ci sentiremo a casa. La giornata era nuvolosa e perfino San Pietro sembrava triste. Così il corpo fu portato al Maracanã e noi con lui. Eravamo là, io e Ademir Menezes, le nostre consorti e l’ultima moglie di Mané, Vanderléia. Nessun altro.
Ero furioso. Questo non è possibile, pensavo. Lì adesso c’era Mané, che è stato la grande fonte di gioia di questo popolo e che ci ha regalato due Mondiali. Come poteva la gente di Rio essere così ingrata in questo momento d’addio? Nessuno sembrava venire per onorarlo dell’ultimo saluto. Cominciai a camminare avanti e indietro, alternando imprecazioni alle lacrime. San Giuda Taddeo, il santo protettore per tutti i casi impossibili, deve avermi sentito, anche se si dice che tifi per il Flamengo, perché poco dopo il Maracanã era gremito. Come se ci fosse stato il derby di Rio, solo che tutti erano in silenzio. Non si sentiva altro che i singhiozzi e i passi della lunga fila di gente afflitta che si accomiatava da Garrincha. Fummo costretti addirittura a chiedere aiuto alla polizia per mantenere l’ordine, lo stadio era zeppo giorno e notte.”
Quando il giorno seguente il corpo di Garrincha fu traslato a Pau Grande, venne portato lungo l’Avenida Brasil fuori da una Rio che era uscita dalle case per salutarlo. La sepoltura avvenne a Pau Grande, che migliaia di persone raggiunsero in macchina e con treni speciali. All’ingresso di una fabbrica era esposto un grande striscione: “Garrincha, hai fatto sorridere il mondo intero. Oggi lo fai piangere.” Nilton Santos non riuscì a partecipare alle esequie. Una settimana più tardi si recò sulla tomba: “Volevo sapere dov’era sepolto. Altra scena incredibile: la cassa sporge dal terreno. Lo avevano seppellito in una fossa poco profonda. Tornai subito a Rio, dal Botafogo. Così non poteva andare, il club era obbligato a procurargli una fossa e una lapide come si deve. Ma al Botafogo i tempi erano cambiati. Non c’era più un Carlito Rocha, e di quelli che erano lì quando arrivai, nessuno alzò un dito per aiutarmi. Così andai all CBF, la Lega Calcio Brasiliana. Sapevo che avevano aiutato Mané negli ultimi tempi, pagandogli rette scolastiche e parte dell’affitto della casa. Garrincha aveva fatto molto per il paese, ma non aveva mai ricevuto, come noi altri campioni del mondo, un qualche compenso economico. Un ultimo aiuto della CBF non era davvero chiedere troppo. Semplicemente così non poteva finire. Mi promisero che avrebbero richiamato.
Di più non accadde e capii che dipendeva da me, il compito che m’ero assunto durante la veglia, il provvedere alla lapide. Così ordinai una lapide in marmo con l’iscrizione: «Qui giace l’uomo che fece la Gioia della Gente».”
Con Garrincha è un po’ come con Skoglund. La gente parla e s’interroga, ci si rallegra e sbigottisce, si fanno domande sulle vite brevi, sulle convulse danze alla luce dei riflettori e sulla fine inesorabile. Nilton Santos era una delle persone più vicine a Garrincha, e le sue ultime parole sul compagno con la maglia numero sette meritano di essere citate:
“Garrincha è finito come è finito. E mi chiedono sempre: perché? C’erano problemi con la faniglia? Si trattava di squilibrio mentale o emozionale? Mancanza di istruzione? Non voglio legittimare queste domande o dare delle risposte. Cerco solo di sentirle. Voglio semmai credere che lui fosse qui in questo mondo per mostrarci qualcosa. E non per mostrarci di essere un uomo esemplare, uno che si adatta a tutti i modelli della società, bensì per essere un idolo. È venuto in questo mondo per giocare a calcio e per diffondere gioia nel mezzo della vita irta di ostacoli che conduciamo. È venuto da noi per difendere i colori della nazionale, del suo paese, e lo ha fatto in modo immortale con le sue incredibili finte ubriacanti. Garrincha è venuto in questo mondo per insegnarci la semplicità, la bellezza e l’umiltà. È venuto nel nostro mondo per dare quello che aveva, attraverso il calcio. È venuto per essere amato e apprezzato. Non per essere interrogato e spiegato secondo le leggi della matematica, dove due più due fanno sempre quattro.
È così che preferisco vederlo. Questo è quello che provo.”
citazioni da: Nilton Santos: Minha bola, minha vida, Rio de Janeiro, 1998